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ALMANACUS DOMENICALE - 19 MARZO (Festa del papà))

ALMANACUS DELLA DOMENICA


Oggi è Domenica 19 Marzo della terza settimana di questo mese e undicesima settimana di questo anno.

Il sole sorge alle 6:14 e tramonta alle 18:21

La luna tram.18:21 e sorge alle 05:22

Fase Lunare : Calante

La prossima luna piena ci sarà il 6 Aprile



SCOPRIRE L'ITALIA


MONTEMERANO (GR)



Si può dire con assoluta certezza che Montemerano è un incanto medievale puro, dove tutto è raccolto tra le sue mura e dove tutto pare si tenga stretto quel sapore del tempo che non è mai trascorso. Un perimetro di terra al di sopra di una gentile collina domina, dalla struttura singolare a cuore, domina con la sua impronta medievale una valle che fu dominio e nascita di quella civiltà ancora sconosciuta, gli etruschi.

La bellezza di questo antico borgo non è sottolineata da particolari monumenti o palazzi o piazze, la sua caratteristica è il paese intero, con le sue strette vie, con le sue affacciate dalle finestre e di balconi colmi di fiori, labirinti lastricati, e soprattuto coloro che vi abitano che fanno invidia a un mondo ormai dimenticato e sempre di corsa, persone che ancora trascorrono parte del loro tempo a chiacchierare, a scambiarsi idee o progetti o solo interessi sedute nei cortili, con la bontà e la serenità che noi non sappiamo più riconoscere.

Al centro di questo borgo c'è una delle più antiche piazze della valle del Fiora, Piazza del Castello costruita come campo di addestramento nel XII secolo e oggi al posto delle armi e delle armature sovrastano una miriade di fiori che spuntano da ogni dove, pure da antiche botti.

Scendendo dalla piazza si arriva alla strada principale di Montemerano, Via Italia, dove si affacciano i tipici locali toscani, bar e ristoranti caratteristici che invitano con i loro profumi e i loro sapori, e negozi di piccolo artigianato che allietano e invogliano.

Al termina della strada si arriva alla Chiesa di San Giorgio, una chiesa del XV secolo voluta dai conti Baschi, dove all'interno si possono ammirare affreschi che rappresentano corpi nudi all'ingresso del Paradiso, un affresco che meravigliosamente ha anticipato quello più famoso di Michelangelo. Altri affreschi adornano la chiesa e comunque fa spicco la pala sull'altar maggiore dipinta da Lorenzo di Pietro nel 1455 raffigurante una Madonna con Bambino e santi.

San Giorgio è il patrono della città e ogni anno nei giorni dal 23 al 25 Aprile viene a lui dedicata la festa patronale nella quale tra le altre cose viene svolta la Giostra del Drago, una sfila in costumi prettamente medievali per le vie del borgo rappresentando “la vera storia di San Giorgio” per merito del teatro delle ombre.

E dopo aver percorso questo paese, mangiato e bevuto in sazietà non dovete farvi mancare un tranquillo momento nelle prodigiose acque termali calde di Saturnia che dista da questo borgo a pochissimi chilometri.

Immagini puzzle da web:



APPUNTI PER UNA LETTURA DEDICATI AL PAPA'


IL PADRE DI ARTURO – ELSA MORANTE


Un padre irraggiungibile, quasi sempre lontano, oppure presente con una sua impenetrabilità e un suo mistero che affascinano il figlio, abituato alla solitudine e alla attesa.
Arturo e suo padre sono una coppia stranamente legata.
Vivono a Procida, fuori dell'abitato, in una casa vecchia e quasi abbandonata, in cui da lungo tempo non c'è traccia di una presenza femminile.
Un po' selvaggio, solitario, randagio, Arturo vede in quel suo padre sempre di passaggio un sovrano pieno di gloria. È fiero di lui quando può accompagnarlo, nei suoi rari soggiorni sull'isola, per le strade del paese, in mezzo ai procidani che il ragazzo si immagina ammirati a guardarli.
Arturo e fiero di poterlo imitare nel modo di vestire trasandato, nei gesti, nella sicurezza con cui domina gli elementi naturali.
Così il padre è insieme «una grazia straordinaria », una figura da imitare, un possesso da ostentare.
Mio padre viveva, la maggior parte del tempo, lontano. Veniva a Procida per qualche giorno, e poi ripartiva, certe volte rimanendo assente per intere stagioni.
A fare la somma dei suoi rari e brevi soggiorni nell'isola, alla fine dell'anno si sarebbe trovato che, su dodici mesi, egli forse ne aveva passato due a Procida, con me.
Così, io trascorrevo quasi tutti i miei giorni in assoluta solitudine; e questa solitudine, cominciata per me nella prima infanzia (con la partenza del mio balio Silvestro), mi pareva la mia condizione naturale.
Consideravo ogni soggiorno di mio padre sull'isola come una grazia straordinaria da parte di lui, una concessione particolare, della quale ero superbo.

Credo che avevo da poco imparato a camminare, quand'egli mi comperò una barca. E quando avevo circa sei anni di età, un giorno mi portò al podere, dove la cagna pastora del colono allattava i suoi cuccioli d'un mese, perché me ne scegliessi uno. lo scelsi quello che mi pareva il più indiavolato, e con gli occhi più simpatici. Si rivelò che era una femmina; e siccome era bianca come la luna, fu chiamata Immacolatella. Quanto poi al fornirmi di scarpe, o di vestiti, mio padre se ne ricordava assai di rado.
Nell'estate, io non portavo altro indumento che un paio di calzoni, coi quali mi tuffavo anche in acqua, lasciando poi che l'aria me li asciugasse addosso.
Solo raramente aggiungevo ai calzoni lilla maglietta di cotone, troppo corta, tutta strappata e slentata . Mio padre, in più di me, possedeva un paio di calzoncini da bagno di tela coloniale, ma, fuori di questo, anche lui, nell'estate, noli portava mai altro vestito che dei vecchi pantaloni stinti, e una camicia senza più un solo bottone, tutta aperta sul petto.
Qualche volta, egli si annodava intorno al collo un fazzolettone a fiorami, di quelli che le contadine comperano al mercato per la messa della domenica. E quello straccio di cotone, addosso a lui, mi pare il segno d'un primato , una collana di fiori che attesta il vincitore glorioso!Né io né lui possedevamo nessun cappotto. D'inverno, io portavo due maglioni, uno sull'altro; e lui, sotto, un maglione, e, sopra, una giacca di lana a quadri, usata e informe, dalle spalle eccessivamente imbottite, che aumentavano il prestigio della sua alta statura.
L'uso della biancheria sotto i vestiti, ci era quasi del tutto sconosciuto.
Egli possedeva un orologio da polso (con la cassa d'acciaio, e il bracciale, anch'esso, di pesante maglia d'acciaio), che segnava anche i secondi, e si poteva portare anche in acqua.
Possedeva inoltre una maschera, per guardare sott'acqua nuotando, un fucile, e un binocolo da marina con cui si potevano distinguere le navi che viaggiavano in alto mare, con le figurine dei marinai sul ponte.
La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l'assoluto regnante!
Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza; ma nei brevi intervalli che trascorreva a Procida, io lo seguivo come un cane. Dovevamo essere una buffa coppia, per chi ci incontrava!
Lui che avanzava risoluto, come una vela nel vento, con la sua bionda testa forestiera, le labbra
gonfie e gli occhi duri, senza guardare nessuno in faccia. E io che gli tenevo dietro, girando fieramente a destra e a sinistra i miei occhi mori, come a dire: "Procidani, passa mio padre!"
La mia statura, a quell'epoca, non oltrepassava di molto il metro, e i miei capelli neri, ricciuti
come quelli di uno zingaro, non avevano mai conosciuto il barbiere (quando si facevano troppo lunghi, io, per non esser creduto una ragazzina, me li accorciavo energicamente con le forbici; soltanto in rare occasioni mi ricordavo di pettinar li; e nella stagione estiva erano sempre incrostati di sale marino).
Quasi sempre la nostra coppia era preceduta da Immacolatella, la quale correva avanti, ritornava indietro, annusava tutti i muri, metteva il muso in tutte le porte, salutava tutti.
Le sue familiarità verso i compaesani mi facevano spazientire spesso, e con fischi imperiosi io la richiamavo al rango dei Gerace .
Avevo, così, un'occasione per esercitarmi nei fischi. Da quando avevo cambiato i denti, ero diventato maestro in quest'arte. Mettendomi in bocca l'indice e il medio, sapevo trarre dei suoni marziali .

Immagine web:


LE MARIONETTE – ALBERTO MORAVIA


Svolta la carta con dita impazienti, apparivano un paio di guerrieri corazzati di stagnola brillante, oppure una dama vestita di velluto celeste, oppure un diavolo nero e rosso armato di forca, o un cuoco vestito di bianco.
Luca abbracciava suo padre e poi correva in camera sua a riporre le marionette accanto alle altre che già possedeva, in uno scatolone di legno a scompartimenti.Dapprima aveva cercato di Iarli agire sulla ribalta del minuscolo teatro in azioni sceniche improvvisate, contro lo sfondo di scenari rappresentanti sia una reggia, sia una foresta, sia una prigione.
Ma poi, prevalendo in lui sul gusto disinteressato del gioco la passione del collezionista, si era accontentato di allinearli nello scatolone come un avaro accumula monete in fondo a un cassetto.
Li contava e li ricontava, li accarezzava e li lisciava, li contemplava a lungo, inginocchiato, a terra, poi li riponeva; e questo era tutto.

da La disubbidienze

Il padre costruisce marionette con la carta stagnola per far felice il suo bimbo Il ragazzo colleziona le marionette come un avaro le sue monete.

Immagine web:



AVEVO PAURA DI MIO PADRE – NATALIA GINZBURG

Questo padre con la fronte aggrottata e le sopracciglia arruffate, che non parla, ma urla o meglio «tuona» ordini e critiche, ispira una sacra paura alla figlia, una bambina impacciata, indolente e insicura: una paura tanto grande da non avere il coraggio di rivolgergli mai la parola.


Mio padre... non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre: e mia madre gli aveva assicurato che m'avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi.
Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po' di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti .
lo però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d'un'intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d'un giorno.
Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura.
Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e
urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos'avevo detto, e le mie parole, nel!a voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s'apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d'aver paura.
Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d'una bufera: e io odiavo d'essere all'origine d'una lite fra i miei genitori: era la cosa che odio e temevo di più al mondo.
Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce.
Era certo la vita d'un impiastro: ma come l'amavo nella memoria.
Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi, disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione.
Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d'un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava;
e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra.
Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s'interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d'un mio fratello, maggiore di me di qualche anno «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi».
Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l'aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo.
Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»: e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere.
Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti, e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati.
S'arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre,
le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba.
Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre.
Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa.

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IL VANGELO DELLA DOMENICA


IV Domenica del Tempo di Quaresima

Colore liturgico: Viola


Gv 9, 1 - 41


Andò, si lavò e tornò che ci vedeva

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».

Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».
Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».
Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.
Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».

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PENSIERI DEL GIORNO


Tu puoi aver pace, soltanto se la dai”

Marie von Ebner-Eschenbach


Il segreto della felicità, non è di far sempre ciò che si vuole, ma di voler sempre ciò che si fa.”


Lev Tolstoj – Inediti


Il linguaggio è stato lavorato dagli uomini per intendersi tra loro,

non per ingannarsi a vicenda.”

Alessandro Manzoni – La rivoluzione francese



RICETTA DOMENICALE DI NONNA LINA


TORTELLI DI MONTEMERANO


Non posso rimanere indifferente a una ricetta che rappresenta davvero tutta la Maremma, una semplice ricetta casalinga che viene tramandata da generazione in generazione e che nella sua semplicità e nei suoi naturali ingredienti ne offre quel giusto sapore da accarezzare il palato e saziare lo stomaco, tali da non potersene dimenticare e averne ancora la voglia di mangiarne.


Per l'impasto io vi accenno alcune dosi basilari, non sto a spiegarvelo, oggi potete benissimo fare la pasta con la pastiera elettrica, e comunque la cosa che più mi raccomando è di “tirare” bene la pasta, purchè non sia propriamente fina ma neppure grossolana, quella via di mezzo che noi massaie di una volta sappiamo conoscere a memoria e tatto.


500 gr di farina bianca 0


4 o 5 uova e naturalmente un pizzico di sale


L'importanza di questa ricetta sta comunque anche e soprattutto nel ripieno, che deve essere fatto con prodotti assolutamente genuini e naturali, perciò io indirizzo sempre, quando si fanno queste particolari ricette, di rivolgersi a un fruttivendolo o ortolano del paese per ottenere un fresco prodotto che spesso ha origini locali.


400 gr di spinaci e erbette ( noi gli chiamiamo “erbi” che io personalmente ho ancora la pazienza e la forza di potermele procurare passeggiando nei i campi che circondano la mia casa), e qualche foglia di bietolina o bieta come la chiamate.


300 gr di ricotta di pecora ( anche qui vi consiglio trovarla più fresca e genuina possibile, solitamente in alcuni negozi di formaggi specializzati potreste trovarla di quella “del pastore”) che deve essere ben scolata e asciutta.


2 uova


un 5 cucchiai di parmigiano grattugiato


noce moscata, sale e pepe



Lavate accuratamente tutte le verdure, io nell'ultimo risciacquo aggiungo una puntina di bicarbonato per disinfettarle, poi fatele lessare in una pentola capiente avendo cura di aggiungere soltanto pochissima acqua. Una volta cotte, scolatele ben bene e meglio sarebbe lasciarle nel colino fin tanto che non si sono raffreddate. Poi le tritate con un coltello e le mettete in una terrina dove aggiungerete a quel punto le uova, la ricotta, il parmigiano, il sale e pepe o spezie varie.


Dalla sfoglia che avrete preparato anticipatamente, ricavate delle strisce regolari poi con un cucchiaino prendete un poco dell'impasto delle verdure e lo ponete sulla striscia della sfoglia e continuate così avendo cura di distanziare l'impasto di circa otto o nove cm. Una volta ultimata una prima striscia la “chiudete” ripiegando la sfoglia su se stessa e con le dita pigiate l'intorno in modo di serrare bene il ripieno, tagliate con la rotella dentata e ponete i “tortelli” su un vassoio ricoperto di farina di mais.

Cuocete i tortelli in abbondante acqua salata per circa 10 minuti , poi con la schiumarola abbiate cura di scolarli e depositarli su un piatto di portata condendoli..........

E qui devo fare un appunto particolare, perchè questi meravigliosi tortelli hanno la particolarità che possono essere usati come un primo davvero eccellente e allora li condiamo con del buon ragù di carne, o se volete restare leggeri sono buoni anche con una vellutata di pomodori o pomarola, ma vi garantisco che potete anche servirli come dolce, perchè una volta scolati li indorate con una pioggia di zucchero misto a cannella e il gusto sarà prelibatissimo.

Nonna Lina

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IL MOTIVO DEL GIORNO


Per la festività del Papà


Mio Padre – Riccardo Cocciante



L'OPERA D'ARTE DELLA DOMENICA


Leggendo la lettera – Pablo Picasso c.1921




Segni zodiacali del mese: PESCI dal 20/2 al 20/3


ARIETE dal 21/3 al 20/4






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